Il 14 e 15 marzo In Seminario l’evento, aperto anche agli educatori e ai collaboratori della pastorale giovanile, è stato aiutato dalla riflessione del coordinatore di Odl don Samuele Marelli.
Per la consueta “due-giorni assistenti d’oratorio” promossa dalla Pastorale giovanile diocesane, e aperta per il secondo anno anche ai laici, l’affondo è stato affidato a don Samuele Marelli, vicario per la pastorale giovanile della comunità pastorale di Seregno (Mi) e coordinatore di Odl, la commissione regionale che raccoglie ogni mese gli uffici delle diocesi lombarde incaricate del servizio per la pastorale giovanile e l’oratorio. A tema – in continuità con l’anno pastorale diocesano – la missionarietà della pastorale giovanile e dell’oratorio.
Don Samuele, davanti ad un nutrito gruppo di preti e laici a diverso titolo impegnati nel servizio ai giovani, ha impostato una prima lettura in tre punti, per poi aprire al dialogo con i presenti.
Nella mattinata di giovedì 15 marzo il focus si è concentrato sulla missionarietà nella vita del prete dentro e fuori l’oratorio. Accanto a don Samuele sono intervenuti anche due vicari cremonesi: don Stefano Montagna e don Michele Rocchetti hanno portato al vivo la propria esperienza, anche nel cammino di costruzione di un servizio di pastorale giovanile in unità pastorale. Le note del lavoro appassionato, dell’esigenza di una collaborazione intelligente e della condivisione con altre forme di ministero nella Chiesa sono state sviscerate con l’aiuto di tutti. Non sono mancati alcuni affondi sul fascino e sulla bellezza della vita ministeriale nelle forme anche specifiche dell’oratorio lombardo, certo in trasformazione, ma vivace nella sua radicazione nell’incontro, nella relazione educativa, nella proposta spirituale. Anche il prete, e soprattutto per ministero proprio il prete, è colui al quale è chiesto di suscitare la domanda e di “uscire di casa” con l’idea di ricercare e costruire relazioni di qualità, occasioni di incontro certo oggi trasformate e rimodulate, ma che richiedono comunque una intenzionalità precisa e una passione per l’umano che è propria del ministero.
Di seguito sono riportate alcune considerazioni e prospettive che possono essere fatte oggetto di condivisione e ulteriore riflessione negli oratori.
Alcune premesse
Occorre – oggi più che ieri – pensare insieme e costruire un discernimento comunitario. Ovvero serve uno stile sinodale. Dal “fare dei laici” al “pensiero con i laici”, si potrebbe dire in slogan. “L’Oratorio – ha precisato don Samuele – è un oggetto pastorale interessante: vive infatti di una sproporzione tra il tanto fatto e il poco pensato”. Occorre pertanto chiedersi: l’oratorio è uno strumento missionario? E ancora: è adeguato alla missione ecclesiale? “Sì” e “no” potrebbe essere la risposta: “sì” perché affronta tante questioni scottanti, vive tante accoglienze; “no” perché in fondo in oratori bisogna andarci e il rischio è che l’unico fenomeno sia “centripeto”.
Oltre la retorica sulla missione, un grande problema è la comprensione forzosa della missione come “dovere”, pesante e faticoso, mentre dovrebbe essere un “bisogno”, dato che “una cosa bella ti vien subito da dirla”. In oratorio oggi occorre trovare il gusto del lavoro per reggere la fatica e partire dall’idea che l’altro è il segno della missione di Dio per noi, è una pro-vocazione, a favore della verità di noi stessi.
Lo stile missionario
Partire dai bisogni
Nella sua concezione originaria l’oratorio è missionario per natura: parte dai bisogni. Come Cristo. Istruzione e salute – ad esempio – sono sempre stati al centro dell’ attenzione della Chiesa, perché dimensioni problematiche, decisive, forti per gli uomini concreti, nella logica dell’incarnazione. L’oratorio (e i suoi educatori) non è un masso immutabile: è chiamato a leggere la realtà, perché a distanza di anni le strutture missionarie non sono automaticamente adeguate. Oggi c’è bisogno di relazioni sintetiche, gratuite e significative. Va ricordato che la comunicazione di per sé non è relazione. Siamo in epoca di grande solitudine. Fragili, intelligenti e soli: questo potrebbe essere un identikit di molti adolescenti oggi.
Saper osare
Ci sono dei rischi che non si possono non correre. “Una pastorale di conservazione è oggettivamente peccaminosa”, ricordava il card. Tettamanzi, contro la pigrizia mentale. Serve osare il salto. Allora una pastorale missionaria richiede il gusto della generatività. Alcune proposte e alcuni stili sono sterili. Non va dimenticato che si è passati dall’essere “gestori” della fede al problema del “primo annuncio”: il suscitare una “fede che non c’è”. In una battuta: dal battezzare i convertiti a convertire i battezzati. Abbiamo in mente di suscitare o di amministrare? Intercettiamo le persone? I loro luoghi? L’unica possibilità è quella di una chiesa estroversa, capace di ricerca del fratello che non c’è più. Si pensa alla missione nei confronti dei lontani, ma sono i vicini che si allontanano. Una pastorale missionaria cerca innanzitutto di non far allontanare i vicini: abbiamo attenzione alle persone concrete? Abbiamo in mente le persone? Quante ne vediamo senza incontrarle? Rischiamo di non incontrarne una. Dov’è la “casa” della gente? La dinamica sacramentale ci fa vedere le persone, ma l’incontro può essere debole.
Capaci di provocare
Serve inoltre una Chiesa che provochi. Nei primi secoli la Chiesa aveva una capacità grande di indicare una novità. Fino a poco tempo fa il cristianesimo era “atmosferico”. Le domande su Dio c’erano, ma c’erano anche le risposte. Oggi generare la fede significa suscitare domande. Possiamo oggi suscitare domande? Stupire? Che linguaggi vanno preferiti? Come oggi un ragazzo diventa cristiano? 1) incontra qualcuno 2) gli si vuole bene 3) vede il bene. È possibile oggi ripensare i punti di accesso alla fede? Una pastorale missionaria oggi deve prevedere itinerari differenziati. Sarà il Signore a dividere buoni e cattivi. “L’uomo abile raccoglie molto, ma l’uomo di fede è più forte: il raccolto dipende da molti fattori. È colui che non si stanca di seminare”.